Green Pass, quando la Scienza vaccina dai dubbi e dalle domande
Riportiamo questa intensa e lucida riflessione da parte della Biologa Valentina R. che ringraziamo molto per questa sua condivisione.
La Scienza, figlia della conoscenza socratica, si fonda sui dubbi e sugli interrogativi che oggi essa stessa stigmatizza con sdegno, quasi appellandosi a un sacro dogma di fede. È bene rammentare che Ippocrate, padre della Medicina e socratico anch’egli, credeva che per comprendere la malattia e le cure necessarie ad un paziente occorresse esaminare un’ampiezza di parametri individuali (perfino ambientali, psicologici e sociali) che, dopo di lui, sono stati raramente considerati nel corso della storia.
Oggi, anche in assenza di risposte certe, la Scienza è “certa” di possedere la soluzione unica e giusta per tutti e aizza un polverone mediatico e legislativo volto a ridicolizzare, discriminare e infine odiare il pensiero di chi pone dubbi e domande.
Più che mai grave è che questa politica venga perseguita attraverso uno strumento, il Green Pass, propagandato come misura sanitaria anche quando diversi medici ammettono che di scientifico non ha nulla.
Ma partiamo dal principio.
Cos'è un vaccino
Un vaccino è un farmaco che stimola il sistema immunitario a produrre anticorpi, deputati a combattere i microrganismi causa della malattia[1].
Dalla loro scoperta nel 1796 con Edward Jenner per il vaiolo, la Medicina e l’umanità hanno fatto ampio uso dei vaccini per la loro capacità di indurre un’immunità specifica, persistente nel tempo e in grado di impedire tanto l’insorgere della malattia quanto la diffusione del patogeno di essa responsabile. Nel caso dei vaccini attualmente disponibili contro il Sars-Cov-2, è bene anticipare che questa premessa viene disattesa in percentuali ancora in corso di studio e quantificazione. Gli individui vaccinati contro il Covid-19 possono infatti infettarsi, trasmettere la malattia e, non ultimo, ammalarsi[2].
Al fine di evocare una risposta immunitaria, i vaccini finora ampiamente riconosciuti per sicurezza e capacità protettiva si sono basati sull’inoculazione di anatossine, antigeni purificati e virus (vivi o attenuati). I preparati anti-Sars-Cov-2, invece, prevedono la somministrazione di RNA (Pfizer-BioNTech e Moderna) o DNA (Oxford-AstraZeneca) codificanti una piccola porzione del virus contro cui il nostro organismo eserciterà la risposta immunitaria. Queste tecnologie, per quanto estremamente innovative e promettenti, non sono mai state utilizzate sull’uomo su larga scala e ciò dovrebbe indurre prudenza nel perseguire una campagna di vaccinazione di massa che tiene invece poco conto dei fattori di rischio individuali dalla malattia.
A tal riguardo, è opportuno osservare che le campagne di vaccinazione, regolamentate da giurisdizioni nazionali, hanno sempre seguito calendari di somministrazione molto precisi basati sull’età e sullo stato di salute di un individuo. Con i vaccini anti-Sars-Cov-2 assistiamo invece ad una generalizzata somministrazione di massa che ha subito continue rimodulazioni degli intervalli di tempo tra le dosi, della tipologia di vaccino più indicata e del numero di dosi necessario per sollecitare una risposta immunitaria soddisfacente.
Altro fattore che da sempre disciplina le campagne vaccinali nel mondo è il livello di diffusione della malattia sul territorio interessato. Basti pensare che un viaggio in alcuni paesi dell'Africa comporta delle vaccinazioni che in Italia non ci sogneremmo mai di fare, come quelle contro il colera o la febbre gialla. È doveroso precisare che il nostro Ministero della Salute raccomanda queste vaccinazioni per proteggere noi stessi, ma nessuna autorità sanitaria, neanche l’OMS, obbligherà tutta la popolazione africana a vaccinarsi perché noi stiamo passando di là. E non per questo odieremo tutti coloro che hanno scelto di non vaccinarsi.
Già alla luce di queste prime osservazioni, sarebbe auspicabile che la Medicina, soprattutto in ragione delle sue sempre maggiori possibilità di anamnesi e screening, somministrasse cure e farmaci sempre più individualizzati e ripiegasse il meno possibile su generalizzazioni che rischiano di trascurare le reali necessità dei pazienti. Gli individui sono diversi per variabilità genetica, stili di vita e pressioni ambientali. Ognuno di noi reagisce in modo diverso a sollecitazioni esterne del nostro sistema immunitario, come quelle dei virus, e il Covid-19 ne è stato l’esempio lampante. Parliamone dunque nello specifico.
La malattia da Covid-19
Il Sars-Cov-2 è un virus a RNA appartenente alla vastissima famiglia dei coronavirus e associato alla sindrome respiratoria acuta, nota come Covid-19. È bene fare un importante distinguo tra contagio e sviluppo della malattia al fine di comprendere l’esito di questa infezione.
Nello specifico, secondo i dati forniti dall’ISS:
oltre l'80% della popolazione contagiata ha avuto sintomi lievi senza particolari decorsi, a parte una prolungata astenia (il comune senso di stanchezza che sarà probabilmente capitato a molti di voi anche dopo le classiche influenze stagionali di qualche inverno fa).
Circa il 10% ha avuto un decorso più importante con febbre e sintomatologia respiratoria, ma curata a domicilio.
Una percentuale compresa tra il 4 e il 6% ha necessitato di cure ospedaliere e ricovero. Alcune persone sono finite in terapia intensiva.
Il tasso di letalità si è aggirato intorno al 3% con picchi del 6,6 nella prima ondata (anche per mancanza di tracciamento e inadeguatezza di cure) ed ha riguardato soprattutto persone anziane e/o con gravi patologie a carico.
A validazione della variabilità dell’esito dell’infezione si è inoltre assistito al fenomeno per cui in molte coppie conviventi soltanto uno dei due si contagiasse e manifestasse la sintomatologia.
Passando dalle percentuali ai numeri, e sempre secondo dati ISS, in due anni i decessi di pazienti positivi al Sars-Cov-2 sono stati circa 130.000 su 4,5 milioni di contagiati, numero probabilmente sottostimato per la mancata conta degli asintomatici che rappresentano un’ampia percentuale dei contagiati (tale considerazione potrebbe indurre una rivalutazione al ribasso delle percentuali di ricoveri e decessi soprariportate).
Nella prima ondata di marzo 2020 sono stati registrati picchi con centinaia di decessi al giorno (928 morti il 28 marzo 2021) per scendere a poche decine nell’estate 2020.
Da un punto di vista epidemiologico l’età mediana dei deceduti si aggira intorno agli 85 anni per le donne e 80 anni per gli uomini. Il 67,7% di loro presentava tre o più gravi comorbidità.
I morti sotto i 50 anni, per fortuna, sono un numero esiguo. Per l’esattezza sono stati 1.124 (dati ISS al 21 luglio 2021)[3]. Relativamente alla fascia 16 – 59 anni, la maggior parte dei pazienti deceduti presentava una o più comorbidità e per citarne alcune: diabete alimentare (24,5%), ipertensione arteriosa (37,6%), obesità (30,7%), cancro (17,1%).
I morti giovani e sani rientrano in una casistica ancora più bassa dei morti per ictus o infarto tra giovani e sani.
Sono numeri che, certo, letti in valore assoluto terrorizzano, ma forse spaventano ancora di più i seguenti del nostro paese (fonti ISTAT):
1.700 è il numero giornaliero di morti per cause diverse dal Covid-19 (principalmente cancro, malattie cardiovascolari, diabete)
225.000 è il numero di morti all’anno per malattie cardiovascolari
1 persona ogni 10 minuti muore di diabete
circa 8.000 sono le morti all’anno per cause direttamente legate all’influenza[4], ma i numeri salgono a 100.000 per complicazioni indirette (nonostante il vaccino a disposizione).
3.000 persone all’anno muoiono in un incidente stradale
È bene saperlo: la morte esiste e fa parte della nostra esistenza.
Torniamo ora al virus Sars-Cov-2 e conosciamo meglio le sue caratteristiche.
Le varianti e la proteina Spike.
Varianti
Abbiamo detto che Sars-Cov-2 è un coronavirus. Il suo codice genetico è contenuto in un piccolo filamento di RNA che il virus replica in copie uguali ogni volta che si moltiplica. Durante questa fase di copiatura (replicazione) l’RNA è, però, molto impreciso e ne derivano errori (mutazioni) che generano virus leggermente diversi (varianti) più o meno avvantaggiati rispetto al virus originario. È evidente che maggiore è il tempo che il virus sopravvive e si moltiplica (sia all’interno di un individuo che tra individui) più aumenteranno le possibilità di errori e quindi di varianti.
Proprio per questo è certamente importante limitare la diffusione del contagio attraverso l’immunizzazione. È però altrettanto vero che, se la campagna di immunizzazione viene condotta con un vaccino non sterilizzante nel bloccare il contagio (come quelli attualmente a disposizione), si rischia di creare un ambiente favorevole alla selezione di varianti resistenti al vaccino (principio darwiniano di selezione naturale). Diversi scienziati, come Geert Vandbossche, nutrono perplessità sull’utilizzo di un vaccino non sterilizzante in un momento di elevata circolazione virale, come quello attuale.
Spike
Spike è la proteina presente in numerose copie sulla superficie del Sars-Cov-2 e che gli conferisce il suo aspetto a corona. Per il virus rappresenta una sorta di chiave con cui riconosce e apre le porte delle cellule bersaglio. Le porte che Spike forza per entrare nelle nostre cellule sono recettori importantissimi, chiamati ACE2 (angiotensin-converting enzyme 2), coinvolti nella regolazione del nostro sistema cardiovascolare. In sostanza, Spike attacca i nostri vasi sanguigni e può determinare squilibri nel sistema circolatorio con gravi conseguenze (miocardite, trombosi e morte). Ormai sono diversi gli studi che identificano Sars-Cov-2 in primis come responsabile di una malattia cardiocircolatoria[5] e non è un caso che molti dei soggetti che hanno sviluppato una forma grave di malattia avessero un quadro cardiocircolatorio già compromesso da altre patologie (come ipertensione, diabete e obesità). La sintomatologia acuta respiratoria sarebbe dunque solo una conseguenza della prima.
Proprio in ragione della tossicità della proteina Spike, scelta per lo sviluppo di tutti i vaccini a disposizione, le nuove frontiere dello sviluppo dei vaccini anti-Sars-Cov-2 guardano anche ad altre parti del virus, non tossiche e meno soggette a variazioni[6].
L’opportunità della vaccinazione anti-Sars-Cov-2
Concludiamo queste considerazioni, certamente non esaustive, ma volte a lanciare spunti di riflessione, con i benefici e i dubbi sull’opportunità della vaccinazione.
È indubbio che chi si vaccina avrà una maggiore protezione dalla malattia (e in parte anche dal contagio) perché il sistema immunitario, grazie alla stimolazione da vaccino, debellerà il virus in fretta.
Viceversa, chi sceglie di non vaccinarsi, dovrà contare solo sul proprio sistema immunitario e sulle terapie di cura ad oggi disponibili. Alcuni supereranno l’infezione quasi senza accorgersene, altri si assumeranno il rischio di ospedalizzazione e, in quadri compromessi, di non farcela.
La questione reale, però, è:
È davvero necessario e opportuno che tutte le fasce di popolazione si vaccinino? E, alla luce dei dati sopraesposti, è giusto essere costretti ad assumersi un (seppur minimo) rischio da vaccinazione più che per proteggere se stessi per proteggere gli altri?
Ed è giusto che la Medicina che, per sua stessa ammissione, procede per errori e tentativi, si arroghi in questo momento la certezza che per tutti valga e occorra la stessa cura?
Per rispondere occorrerebbero riflessioni etiche e prudenti.
Assodato, infatti, che gli studi sulla sicurezza a breve termine di questi vaccini di ultima generazione siano conclusi, non si può dire lo stesso per quelli a medio e lungo termine (che termineranno tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023) e che stanno procedendo attraverso una farmacovigilanza passiva. Il fatto che questi vaccini siano stati somministrati a milioni di persone non dà alcuna certezza sugli effetti nel tempo (come l’insorgenza di malattie croniche, neurologiche o autoimmuni).
Questione non meno marginale sono le miocarditi presentatesi nei giovanissimi che la medicina minimizza e liquida con leggerezza, al pari di un mal di pancia. Una medicina seria ne indagherebbe a fondo le cause prima di proseguire la vaccinazione di individui che non rischiano praticamente nulla dall’infezione da Covid-19.
La medicina dovrebbe ponderare a lungo prima di raccomandare la somministrazione di questi vaccini a tutti indistintamente, soprattutto perché, alla luce dei dati sopraesposti, è chiaro che individui sani e giovani sono in grado di debellare il virus rapidamente e in modo efficace senza bisogno di essere vaccinati.
L’eliminazione rapida del virus da parte di un individuo sano ne ostacolerebbe inoltre la capacità replicativa e dunque di variare. Ciò, a beneficio di tutti, permetterebbe l’instaurarsi di un’immunità naturale diffusa (specifica, ampia e stabile nel tempo) nella popolazione di modo che, quand’anche si esaurisse quella indotta da vaccino, farebbe da scudo alla diffusione del virus. La tesi che soprattutto i bambini potrebbero contribuire in questo senso è sempre più ampiamente sostenuta anche da medici illustri, come il prof. Vaia e il pediatra Zuccotti.
In questi ultimissimi giorni rimbalza invece su tutti i giornali come notizia allarmante l’incremento del numero di bambini sotto i 10 anni positivi al Sars-Cov-2. Il dato dovrebbe essere invece accolto con ovvietà (visto che è l’unica fascia di popolazione non protetta dal vaccino) e soprattutto senza preoccupazione dato l’esito largamente favorevole della malattia.
Possibile che generare paura e terrore sia divenuto un mezzo per giustificare un fine di dubbia sicurezza e utilità?
Al tal riguardo, è doveroso sottolineare che il numero di bambini tra 5 e gli 11 anni che hanno partecipato alla sperimentazione del vaccino Pfizer è pari a 2.268 [7], un numero 20 volte inferiore rispetto a quello dei partecipanti alla sperimentazione dello stesso vaccino per gli over 18 (43.998 persone[8]). Ci si aspetterebbe che l’esiguità del campione fungesse da deterrente ai salti in avanti delle dichiarazioni di questi ultimi giorni sull’opportunità di somministrare il vaccino.
È inoltre ragionevole una campagna di vaccinazione di massa con vaccini che, dati recenti, dimostrano avere una durata nel tempo limitata a 6-7 mesi?
Pare opportuno lanciare una provocazione:
Nel settembre scorso L’FDA nell’approvazione del vaccino Pfizer in via definitiva ha cambiato la definizione di vaccino.
Al 21 agosto l’FDA definiva un vaccino come segue:
Vaccino: “Prodotto che stimola il sistema immunitario di una persona per produrre l’immunità da una specifica malattia, proteggendo la persona da quella malattia”.
Al 9 settembre, data di approvazione di Pfizer in via definitiva, recita invece:
Vaccino: “Preparato che è usato per stimolare la risposta immunitaria del corpo contro delle malattie”.
La differenza è sottile, ma sostanziale.
L’FDA ha giustificato l’aggiornamento della definizione, certamente molto calzante per i vaccini anti-Covid19, sostenendo che sarebbe più consona in generale per tutti i vaccini, dato che nessuno di loro offre una protezione del 100%.
Questo è certamente vero, ma lo è altrettanto il fatto che tutti i vaccini noti per aver salvato milioni di vite dalle malattie nella storia:
bloccavano il contagio (immunità sterilizzante)
offrivano una quasi totale protezione dalla malattia
offrivano una protezione durevole nel tempo
Riguardo al punto 3, possibile che nessun ente regolatore internazionale imponga dei requisiti minimi di durata della protezione dalla malattia per poter approvare un farmaco come “vaccino”?
È davvero giusto equiparare questi preparati anti-Covid19 a quelli per la poliomielite, per il vaiolo o per la difterite, noti per offrire una protezione che dura da un minimo di 10 anni a tutta la vita?
Non sarebbe più corretto definirli “sollecitatori di risposta immunitaria transitoria”?
Direte che è solo una questione di nomenclatura. Anche. Ma è sull’importanza nella storia dei “vaccini” che si fonda l’impianto scientifico che giustifica la somministrazione di massa di questi preparati.
Infine, si osanna molto la gentile spinta a convincersi a vaccinarsi imposta da Green Pass e Super Green Pass.
Ma è davvero per convincimento che le persone, altrimenti impedite a lavorare se non pagandosi il prezzo (in termini di tempo e costo) dei tamponi, si vaccina?
Ed è giusto costringerle a vaccinarsi firmando una liberatoria dalle rare, ma possibili, conseguenze da vaccino?
È certo che ogni farmaco comporta dei rischi, ma si presume che un individuo assuma un farmaco se ne ha un personale e reale bisogno.
Anche l’imposizione indiretta del vaccino tramite Green Pass a chi è guarito dal Covid-19 si scontra con le nuove evidenze scientifiche [9] e[10]. L’immunità dei guariti dura infatti oltre l’anno, è 13 volte più forte di quella indotta da vaccini e tende naturalmente ad evolversi anche contro le varianti non appena l’individuo vi entra in contatto. Molti guariti probabilmente sceglierebbero di misurare regolarmente il proprio tasso anticorpale attraverso un test sierologico invece di sottoporsi a tamponi quotidiani.
Per chiarezza, la questione non è non vaccinarsi, ma avere il diritto di farlo in base ai rischi che ogni individuo corre se contrae questa malattia. È certamente importante che vi vacciniate se siete soggetti a rischio di morte o ospedalizzazione, ma il vostro rischio non verrà modificato dal 18enne che non si vaccina perché, nella stragrande maggioranza dei casi, debellerà il virus talmente in fretta da non dargli tempo di replicarsi e variare. Allo stesso tempo, invece, il virus potrebbe magari replicarsi e variare in individui che, seppur vaccinati, hanno un sistema immunitario compromesso perché anziani e/o fragili.
Per cui, come si è sempre potuto scegliere se proteggersi o meno dall'influenza in base al quadro personale, dovrebbe essere possibile scegliere di vaccinarsi o di vaccinare i propri figli il cui sistema immunitario funziona più e meglio di quelle delle persone anziane o fragili vaccinate. Lo Stato dovrebbe certamente mettere in sicurezza le persone esposte alla malattia grave e offrire il vaccino a chiunque, incluso nella campagna, lo desideri, ma non costringere col ricatto di perdere il lavoro ed essere odiati.
Invece di offrire trasparenza e fiducia agli italiani (popolo che va edotto con la coercizione), si continuano a fare danni al nostro tessuto sociale con un’informazione dogmatica e a senso unico da cui chi dissente è un nemico irresponsabile, ignorante e no-vax.
È terrorismo far passare tutti i non vaccinati come bombe umane pronte ad esplodere ed uccidere, così come lo è dover dimostrare quotidianamente di non essere pericolosi malati.
Questo non è proteggere la popolazione, ma generare odio e divisione sulla paura del prossimo. E la battaglia dello Stato appare non contro il virus, ma contro chi sceglie di non vaccinarsi.
Se invece di combattere il contagio ci fossimo concentrati sulla malattia, saremmo forse riusciti a convivere già da tempo con questo virus che è solo uno delle migliaia incontrati dall’uomo dalla sua comparsa sulla Terra. E chissà che avremmo risparmiato la vita di tante persone, morte nell’indifferenza dei media.
Valentina R.